«Didone Liberata» di Salvatore Conte (continuato)
Dramma teatrale in quattro Atti
«Dido (Elissar) Delivered» an Italian Drama in 4 Acts by Dr. Salvatore Conte
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Con note di Carneade
Opera depositata presso la Società Italiana degli Autori ed Editori
Sezione OLAF
© 2003,
Salvatore Conte

Parte 2 di 4 del documento
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Scena Seconda

Cartagine. Stanza da letto di Didone. Medesima notte.

(Entrano Didone, con in pugno la spada, e Carneade. La Regina posa l’arma nei pressi del letto. Poi siede su di esso, pensierosa, sfiorando le bianche coperte con le mani)

Carneade: «La fatale decisione è già stata presa, irrevocabile.
Nella volontà oscurata, così come nelle chiare conseguenze.
Ed il momento è ora propizio.
La fredda notte29 ed il triste letto portano il miglior complice: la solitudine.
E lo strumento è lì, pronto all’uso.
L’ultimo baluardo, il Capitano Cadmo, monta invano la guardia.
E l’ultimo alleato, il marito Sicheo, invano ha cercato di apparir alla sua sposa, dissipato dall’insonnia di lei.
Giacché solo in sogno può raggiungerla, per consolarla e portarle presagio di pericolo.
Così come fece in quel di Tiro, per metterla in guardia dall’infame fratello, cognato e assassino suo. Pigmalione è l’infame nome.
Perciò il complotto del Fato è accanito; e non prevede vie di fuga per la predestinata Didone.
Ecco dunque la Regina che torna ad impugnare il funesto dono di Enea: lo fissa col proprio sguardo e lo getta sul proprio letto.
Scorre con gli occhi, in tutta la sua lunghezza, la spada troiana che sempre più brama immergere tutta nel grembo deluso30.
Ed or si lascia cader fianco ad essa.
Didone è distesa sul proprio giaciglio. Stringe per l’ultima volta l’arma di Enea e la dispone allo scopo.
Già l’affilata lama ha saggiato le sue morbide membra, ed il rosso sangue ha bagnato il bianco letto.
Nessun ritegno la scuote, perché la fatale decisione è già stata presa, irrevocabile.
Nella volontà oscurata, così come nelle chiare conseguenze.
Ed ecco giungere il final passo: anche la mano sinistra s ’affanna a spingere, avvinta alla destra, il gelido ferro nelle calde viscere!».

(Didone impugna la spada con entrambe le mani e si appresta a spingerla verso sé stessa. A questo punto, prorompe in scena Cadmo, che ferma la mano destra della Regina)

Carneade: «Ma or che vedo?
Una smagliatura nei punti del Fato?
Che sia leggerezza, lassismo, o bizzarria, piuttosto che smagliatura del Fato medesimo, invero non so dire.
Ma posso dire, perché la vedo, che la morsa importuna ed insuperabile di Cadmo si è stretta intorno al braccio di lei.
E’ perciò che l’arto assassino si intorpidisce e la spada di Enea si fa ancor più pesante.
Ché questo, e null’altro che questo, percepisce la sconvolta mente di Didone!
Ed anzi il furor funesto della Regina ne rimane sdegnato.
Eccola avventarsi allora come una Furia contro il ferro del Teucro, per portar a compimento la sua irrevocabile decisione.
Ma già questo la fugge, sradicato dalla sue mani folli, ed ammaestrato da quelle del Capitano delle Guardie.

(Carneade si avvicina a Didone)

Meschina Dido, tu che ti senti rifiutata persino dalla morte.
Meschina Dido, tu le cui lacrime annacquano il medesimo sangue, frutto maligno di mente annacquata.
Meschina Dido, tu che errabondi disperata come nel peggior incubo, ma che pur sei conscia d’esser desta, tu… dimenati pure sul tuo giaciglio.
Meschina Dido, tu la cui vergogna per l’insensato gesto, ancor tarda a vincere quest’ansia inesauribile di morte.
I tuoi occhi ancor cercano la spada del tuo effimero amante.
Ma han trovato quelli severi del tuo Capitano.
Essi ti guardano senza compassione. Aspri.
Cadmo aspetta.
Aspetta che i tuoi occhi si faccian tristi.
Umanamente tristi e vieppiù tristi.
Gravidi di umana, immensa disperazione.
Eppur vitale disperazione.
Egli aspetta che voli via dai tuoi occhi, la Furia31 che li sconvolge».

(Cadmo si avvicina al letto e conficca con rabbia nel pavimento la punta della spada di Enea, a breve distanza dal volto di Didone. L’arma è così lunga che l’elsa sovrasta il capo della Regina)

Cadmo: «Per quanto grande possa essere la vostra ferita, mai potrà esser più grande di voi stessa.
Della grande Regina che ho amato in silenzio per molto tempo.

(Indietreggia. E parla fra sé)

Or ti lascio sola coi tuoi pensieri.
E ti faccio intendere che più non t’importunerò.
Perché è alla tua pazzia che mi rivolgo.
Ma or cosa vedono i miei stanchi occhi che più il giusto sonno non conoscono?
Invero la fulgida veste della mia Regina è macchiata del suo prezioso sangue, e così pure la bianca lana del suo letto?
Così ansiosa la sua vita di abbandonarla?
Così lesto il suo sangue a lasciarla?
Eppur io son certo d’aver fermato le sue mani assassine prima del fatal colpo!
Così ostinato il destino?
Oppur, meschino, m’inganno?
Ché il riposo ho sottratto a lungo alle mie membra, per vegliar sulla mia Regina.
Ed or più di nulla sono certo.
Né più distinguo un colpo mortale da uno di scherno, né piaga profonda da taglio di superficie. Eppure a cosa è utile fermare l’emorragia del corpo, se prima non s’è fermata l’emorragia dello spirito?
Ma se non s’è fermata la prima, come si potrà poi fermare la seconda?
E tu, Cadmo, che fai?
Anteponi favelle ad azioni?
No, io non sto fermo e vengo ad aiutarti, Regina».

(Si avvicina)

Didone: «Come osi entrare nelle mie stanze?
Come osi fermare la mia mano?
Come osi parlarmi d’amore?

(Si volta, ma si fa ascoltare)

Come vorrei che l’uomo che mi ha or privato della spada, fosse lo stesso che me l’aveva concessa!
Ed invece tu parti, infido Troiano, e lasci Didone impotente perfino a morire ».

Cadmo (fra sé): «Il tuo sangue ancor ti conserva impetuosa, ché non parleresti così sciolta con piaga mortale aperta nel petto.
Sol questo m’interessa conoscere, adesso.
Delle tue virtù, ora insospettabili a dirsi, sono ben informato, e della precarietà della tua follia, io mi reputo certo.
Ché mi rammenta la scomparsa del sole, quando esso è alto nel cielo e questo è lindo da nubi32.
Ché la tua mente tormentata non cerca che il giusto sonno che le manca da troppo tempo».

Carneade: «Sconsiderata, meschina Dido.
Tu piangi sulla tua fortuna. E sorridi alle tue disgrazie.
E tu, Cadmo, sopporta la tua scelta, o lascia che il Fato segua i propri disegni.
Ma non dimenticare che il tempo si presenta con volti diversi, secondo il caso: esso può essere l’amico più caro come il nemico più infido.
E qui viene con la migliore delle sue facce.
Il veleno dell’ira funesta scorre dal cuore in direzione della ferita, in senso contrario al veleno del serpente.
Qui il tempo non è nemico, ma alleato.
Già scorgo una smorfia di vil dolore sul volto della Regina.
Ed una delle sue mani scivola ora sotto il corpo per raggiunger la ferita aperta in grembo.
La comoda morfina dell’ansia di morte sta dunque per svanire.
Come ti sentirai ora, Regina? ».

(Didone guarda incredula la sua mano che gronda sangue)

Didone (fra sé): «A chi appartiene tal sangue?
E perché è stato versato?
"Per quanto grande possa essere la tua ferita, non potrà mai esser più grande di te.
Della grande Regina che ho amato in silenzio per molto tempo".
Chi è colui che ancor ha pietà di me?

(Si guarda intorno e si accorge della presenza di Cadmo, che freme per aiutarla)

Insperata Fortuna o estrema malasorte, sei tu, per la tua Regina, Capitano?
Che risposta avrò dato alle tue generose parole?
Io non la ricordo. Ma ne conservo ancora il sapore acre sulle labbra.
Me meschina!
Ferir me stessa, io l’approvo, ma che nessun vada contro il mio fedele Capitano!
Me meschina compresa…
Se io la mia vita ho in odio, quale merce avariata di cui ho fretta di sbarazzarmi senza più nulla chieder per essa, eppur questa merce odiosa ancor qualcuno si ostina a preservare.

(Rivolta a Cadmo, allunga la sua mano sporca di sangue)

Aiutami, Cadmo, e perdonami…».

Carneade: «Scatta fulmineo il Capitano.
A cercar la mano della sua Regina.
E la stringe forte.
Lei deve sentir che non è più sola, adesso.
Il cuor di lui acceso.
L’animo orgoglioso della recente impresa.
Più insidiosa della missione più infida.
La mente adirata per la sventura abbattutasi.
Il corpo sfinito per i lunghi turni di guardia.
Si prodiga, ma non parla, il Capitano.
Interessato solo alla ferita di lei.
Ma la piaga, quella di spada, è superficiale.
Strappa i raffinati lenzuoli di lino e ne fa oneste bende.
Lava il sangue dalle nobili mani e le lacrime dal volto regale.
Chiama la Guardia più fidata e fa portare lenzuoli novelli, erbe mediche e frutta fresca.
Lascia la sua Regina sotto la lana delle coperte, afferra la spada di Enea ed i lenzuoli macchiati, e svanisce nell’ombra da cui è uscito, senza profferir parola.

(Cadmo esce. Ma solo apparentemente. In realtà entra in una zona d’ombra della scena)

Egli lascia a Didone il tempo per capire.
E la Regina, triste ed infelice, comincia a comprendere.
Nella quiete della tarda notte, comprende ciò che la sua mente aveva complottato contro di lei.
E guarda con disprezzo le proprie mani.
Pur odiando ancora la propria vita.
Fino al momento in cui il sonno grava infine le sue membra, concedendo riposo alla tormentata mente ».

(Carneade esce)

Scena Terza

Cartagine. Stanza da letto di Didone. Allo spirar della medesima notte.

(Didone, rimasta in scena, dorme, coricata nel proprio letto. Cadmo è pure già presente sulla scena, nonostante la precedente apparente uscita; egli ricompare dall’ombra con gioco di luci; è in dormiveglia, in terra, nascosto nei pressi del letto di Didone. Alle prime luci dell’alba, entra un assassino senza volto, dai lunghi capelli biondi, armato di pugnale, e si avvicina furtivo alla Regina, non visto da Cadmo. Quand’egli le è abbastanza vicino, le si avventa contro per sferrare un colpo mortale. A tal punto, Didone si sveglia di soprassalto; l’assassino si fa amorfo ed esce. Didone, allarmata, chiama istintivamente Cadmo, pur senza vederlo)

Didone: «Cadmo…
Cadmo!

(Cadmo si sveglia del tutto, e si avvicina)

Cadmo, sei tu sogno o realtà? Sei tu verità dello spirito o verità della materia?
Capitano delle mie Guardie, chi vuole uccidermi?

(Cadmo indugia, perplesso)

Son tornata a sognare, Cadmo.
C’era un assassino nascosto nell’ombra che stava per uccidermi…».

Cadmo: «Mia Regina, dove vi trovavate?».

Didone: «Ero qui, nella mia stanza da letto».

Cadmo: «Che aspetto aveva l’assassino?».

Didone: «Il volto era indistinto, ma ricordo bene i suoi lunghi capelli biondi».

(Cadmo sfiora i capelli di Didone)

Cadmo: «Lunghi e biondi come questi, mia Regina?

(Didone schiaccia il volto sul guanciale. Cadmo si mette in ginocchio, con il capo abbassato)

Or che siete desta, vi esorto a perdonare il vostro Capitano, mia Regina.
Ed in specie, la sua lingua oltraggiosa.
Oltre a questo, son qui a chiedervi una grazia».

(Didone si volta verso la luce della finestra, fuggendo la vista di Cadmo)

Didone: «Non ti comprendo, Cadmo.
Ma se tieni alla vita mia, conserva la tua, perché tu sei l’ultimo lembo di terra su cui mi è concesso trovar rifugio».

(Entra Carneade)

Carneade: «L’uno guarda in basso, traboccante d’amore, per render salde le sue parole.
L’altra guarda in alto, incapace di ricambiare, per non ferir, col suo sguardo inerte, l’uomo che la ama.
Sol questo ho da dire ora.
Ma non è poco».

(Carneade esce)

Cadmo: «Sono molto stanco, mia Regina.
Quello che vi chiedo è la vostra parola che mai più tenterete l’abominio di spegnere la vostra luce, prima che l’ultimo tempo sia giunto».

Didone: «Che vale più la mia parola, Cadmo?».

Cadmo: «Or son io che non vi comprendo, mia Regina.
Mai la vostra parola è venuta meno; e perciò la chiedo».

Didone: «Tu sai che ho mancato a quella più sacra fra tutte: quella data al mio sposo».

Cadmo: «Su tal materia non oso dire, perché essa appartiene a voi due soli.
Ma per certo conosco che per amar core puro foste fatta.
E che a portar fresca vita, e non fetida morte, il vostro grembo prezioso è destinato.
La parola della Regina di Cartagine è così ancor più certa di quelle incise sul marmo dei nostri templi e palazzi, per mano dei nostri abili scultori.
Perciò torno a chiederla prima che le mie stanche membra trovino riposo».

Didone: «Io la mia vita meschina tengo in odio, ma questa non m’appartiene più, giacché ora è tua, Cadmo.
Tu hai acquistato tale merce avariata.
E quando vorrai finalmente lasciarla ai corvi e agli sciacalli, Didone se ne rallegrerà.
Nel frattempo, io, Ombra, priva di ombra propria, seguo la tua come fosse il mio stesso corpo.
I miei passi neppur lascian orme dietro te, ma rendon le tue vieppiù profonde, ché di me sei carico ora».

Cadmo: «Allora io custodisco tale merce preziosa e la difendo con la spada e la vita.
Dai corvi e dal Fato ostile; dalle belve e dagli uomini; da ladri e da mercimoni.
Ma non posso difenderla da voi stessa.
Così sappiate che me avete colpito, stanotte.
A tradimento.
Alla schiena.
Sull’altare33 della mia fedeltà.
Come Pigmalione colpì vostro marito».

(Didone si mostra offesa e pentita al contempo)

Perché questo dovete conoscere.
Son stanco e parlo senza freno.
Ma è questo che dovete conoscere.
Perché ora… io non…».

(Cadmo stremato, si accascia a terra. Didone si alza dal letto e cerca invano di rianimarlo. La sua ferita torna a sanguinare. La Regina vaga per la stanza e quando si avvicina alla finestra, scorge le vele troiane che già tengono il largo. Entra Enea e dalla sua imbarcazione guarda verso la Reggia; poi si volta verso il mare aperto e la Trinacria, dov’è diretto. Didone si getta a terra, guardando verso l’alto)

Didone: «Oh Fato impietoso!
Che m’hai tenuto in vita per torturarmi.
E per render la mia follia permanente…

(Didone si rivolge verso Enea, che rimane di spalle. Cadmo rinviene, ma rimane stordito a terra. Didone non può vederlo perché tra i due è frapposto il letto)

Enea, amor mio, e luce…
Hai già sciolto le tue vele al vento, sì bramoso di lasciarmi, da sfidar gli scogli senza l’aiuto di Febo34.
Così, alla stregua di rovinoso scoglio, tu, Enea mio, mi consideri…
Che dico… peggior insidia di acuminati scogli e torbidi flutti, tu mi stimi!
Me che ti ho dato tutto; la Casa il Regno e l’Amore; e che tutto ancor t’avrei dato.
Il mio grembo, che ora versa sangue impuro, i frutti del mio amore e dei tuoi istinti, t’avrebbe dedicato.
Eppur parti furtivo come il ladro, e sollecito come il condannato, spinto dall’angoscia di lasciarmi presto e subito, ma indifferente all’angoscia per il destino che sai di lasciarmi.
Temi la mia vendetta ma non pensi che essa si abbatterà su me stessa.
So bene che il mio amor non posso importi, Enea mio.
Ma neppur una tua dolce parola, io meritai da te?
Che il mio cuore avrebbe serbato preziosa.
E medicina amara per il mio spirito ritorto sarebbe stata.
E l’avrebbe infin lenito.
Io so bene che il mio amor non posso importi…».

(Entra Busenello)

Busenello35:
«A meriti, a ragion non bada amore:
Egli è Dio, fa a suo modo e non conchiude
Con argomenti umani ».

(Busenello esce)

Didone: « Ma perché tu lo ripaghi col tuo disdegno?
Imputi la tua scelta al Fato, ma è questo che ti ha imposto di chiudermi il tuo cuore, quale fossi la tua peggior nemica?
Ché, anzi, uomo nobile pur con i vinti, hai raccontato d’esser stato.
Il mio cuor palpita ancor per te, Enea.
Ma la mia mente si ribella al tuo tradimento!
Lascia or dunque anche i miei pensieri, perché al mio Eroe devo badare.

(Didone, ancora a terra, comincia a trascinarsi lentamente verso Cadmo)

Fedele Cadmo, limpido come le acque delle sorgenti di Tiro.
Mia spada sempre sguainata contro i miei nemici.
Coltre di spesso marmo contro la saetta della mia sventura.
Morbida piuma contro il mio pianto.
Quale generoso Dio t’ha mandato a raccoglier la mia anima da terra?
Mai, io, i miei occhi, volsi su di te, mio prode Capitano.
Solerti i miei cortigiani a chieder compensi per i lor servizi.
Quanto tu restio ad esibirmi i tuoi meriti.
Ché solo le mie rare parole hai ricevuto per moneta. Eppur te ne sei beato.
Ché se così alto fosse stato il valore della mia moneta, avrei già costruito non una Cartagine, ma cento altre.
Mai volsi i miei occhi su di te, mio prode Capitano.
E poche parole abbiamo scambiato.
Ché poco stimi le troppe parole, ed in odio tieni le favelle.
Ed in disparte sempre ti sei tenuto.
Eppur i tuoi occhi han scrutato da lontano nella mia anima.
Come l’aquila dei monti di Tiro, che tanto più alta sorvola il nostro limpido mare, tanto meglio scruta la preda e la sorprende in picchiata.
Quand’essa si crede sicura sotto il filo dell’acqua.
Quando gli uomini, sulla costa e sui legni, che pure le sono tanto più vicini, nemmen riescono a vederla, e tanto meno possono ghermirla.
Silenzioso come l’ombra, rapido come il fulmine.
Hai complottato contro la mia mente oscurata.
Il tuo occhio d’aquila ha scrutato paziente nella torbida profondità della mia anima.
Ora, Cadmo, io mi aggrappo a te.
Come al forte tronco della nave si aggrappano i naufraghi nella tempesta.
Portami con te a riva.
Perché se Didone vi giungerà, allora trasformerà il suo tormento in rabbia, la sua passione in ardimento, e la sua sofferenza in orgoglio.

(Si ferma e si rivolge al cielo)

Oh Giove Supremo, ascolta la mia preghiera!
Conserva la vita a colui che solo ebbe pietà di Didone; al prode Cadmo.
Ed ella al tuo figlio getulo, a Re Iarba, si concederà qual preda di caccia36.

(Riprende a trascinarsi verso Cadmo, ma ancora non può vederlo)

Che almeno il mio tradimento si applichi ad una nobile causa!
L’unica macchia sarebbe fatto ancor più grave se divenisse la prima tra due.
Ma se la seconda è punizione per la prima, allora tal giusto fio mi sarà dolce scontar.
Generoso Cadmo, avaro con le parole, ma eloquente coi tuoi sguardi, la tua Regina nulla può darti.
Il suo cuore ancor affanna per vanità, ma ella brama per renderlo gelido sepolcro, e mai più tornare ad aprirlo.
Abbandona dunque quella meschina e volgi a fortunata Signora di Cartagine il tuo fiero sguardo.

(Si avvicina a Cadmo, ma questi chiude gli occhi. Didone ne accarezza con adorazione il volto)

Apri i tuoi occhi, Capitano.
Fallo per te.
E poi fallo per me, che ho bisogno di te, per vivere, e per riscattare le mie colpe».

(Cadmo si ridesta)

Cadmo: «Che fate qui, Regina?

(Si alza, prende in braccio Didone, e la corica nel letto, medicandola di nuovo)

Per niente e nessuno dovete più muovere.
Or vi lascio che un poco di riposo mi necessita.
Il mio sonno sopra i Monti di Tiro sarà inquieto, ché non potrò esser qui.
Ma le più fidate Guardie di Cartagine veglieranno sulla loro gran Regina.
Ed ella veglierà su sé stessa.
Perché a nobile cuor non si parla invano.
E non venga Iarba a reclamar preda, giacché da banal sonno fui salvato; e non è questa gran cosa per Giove Supremo.
E da banal sonno mi ridestai, ché ai comuni mortali questo è ancor concesso; e l’opera divina ben merita altre imprese.
Sol la stanchezza m’ha tradito, e non la spada del nemico.
E sol di riposo, e non di prodigi ho bisogno.
Ma che venga Re Iarba col vostro invito, Regina, se questo voi vorrete».

(Cadmo indugia. Infine le prende la mano, e la stringe tra le sue. Poi esce)

Didone: «Nobile aquila di Tiro, torna sulle alte vette da dove sei venuta.
Ché se ancor non andrò preda di caccia a Iarba, non per questo mi rallegro, giacché sventura e fortuna han per me lo stesso sapore, con l’amor mio partito.
Perché il mio cuore è triste.
Esso palpita invano.
E’ Dio bizzarro…».

(Entra Busenello. Ad un suo cenno, Didone si alza dal letto)

Didone37:
«A meriti, a ragion non bada amore:
Egli è Dio, fa a suo modo e non conchiude
Con argomenti umani ».

(Busenello esce. Didone torna a coricarsi)

Scena Quarta

Cartagine. Stanza da letto di Didone. Le prime ore del giorno.

(Didone, rimasta in scena, è coricata nel proprio letto. Si vede del fumo dalla finestra. Entra Anna)

Anna: «Sorella mia, genuino è il tuo ordine38 di dar fuoco alla pira da me preparata?

(Didone indugia. Poco dopo, annuisce)

Perché tanta solerzia, sorella?».

Didone: «Essa non serve più allo scopo39».

Anna: «Non t’appassiona più il fiero Troiano che giunse profugo sui nostri lidi?».

Didone: «Nulla più m’appassiona, sorella40».

Anna: «E perché ti trovo ancor nel tuo letto ad indugiar pensierosa, quando la luce di Febo già da tempo esorta la nostra città a riprendere il passo?
Che t’accade, Dido?».

Didone: «Anna, sorella mia, ascoltami: un sogno, questa notte m’ha portato.
Un uomo alto e forte, dal portamento sì saggio, un consiglio forse prezioso m’ha inteso offrire.
Egli m’ha consigliato di non lasciar il mio letto per tre giorni e tre notti.
Ché una tremenda sventura mi colpirebbe se non l’ascoltassi.
Dunque pensa tu a governar la nostra città, se ti preme evitarmi tale insidia».

Anna: «Che dici sorella?
Quale peggior sventura della partenza di Enea, potrebbe colpirti?
E come mai il Capitano delle tue Guardie non è qui a scongiurarla?».

Didone: «Non abbiamo conoscenza circa la natura dell’annunciata sventura.
Perciò dobbiamo esser prudenti, sorella.
Ma non parlar di Cadmo, ti prego.
Nessun deve parlarne».

Anna: «Perché tieni a questo riserbo? Egli si è forse macchiato di qualche colpa?

(Didone indugia)

Dunque vuoi mostrarti indulgente?».

Didone: «Sì, è così. M’ha chiesto il tempo necessario ad incontrar la sua amata, ed io l’ho concesso.
Ma quando il sole sarà alto sull’orizzonte, vallo a cercare ed esortalo a non lasciar più la sua Regina, ché la sventura preannunciata potrebbe raggiungermi financo nel mio Palazzo».

Anna: «Farò come tu m’indichi, sorella.
Ma lasciami ben informata: si tratta forse della nobile e mirabile Licorida?».

Didone: «Or me l’auguro per lui, ma questo non so né dirti né negarti, Anna mia.
Ma sia chi sia, purché egli non sia, da chi sia, distolto dai suoi compiti».

Anna: «Non temere: sarò limpida nell’esortar Cadmo ai suoi doveri.
E se dovesse ancor mancarvi, allor ti darò consiglio di nominar nuovo Capitano delle Guardie».

Didone: «Ed io ti ascolterei.
Ora va, sorella.
Ché Cartagine ha bisogno della nostra presenza, e non può contar sulla mia per tre giorni.

(Anna annuisce ed esce)

Va, sorella.
Lasciami sola.
Ché almen rimango in compagnia dei miei inverecondi ricordi.
Del mio vuoto sentir.
Della mia anima morta.
Ché questi preferisco al parlar vano.
E non parlar di Cadmo.
Neanch’io ne parlo.
Nessun ne parli.
Lasciami, sorella.
Così come lasciata dalla vita, eppur respinta dalla morte.
Lasciami sola, sorella.
Ignara della mia estinta vita, così come della mia abortita morte.
Ché morta anzi tempo pur sono, e viva oltre tempo, insieme.
E non parlar di Cadmo, sorella.
Nessun ne parli.
Parlatemi invece di colui che m’affanna il cuore.
Enea…
Enea…
Enea…
Voglio sentir il suo nome, che è ambrosia per i miei sensi.
Voglio rimembrar la storia della sua vita, giorno per giorno41.
Conoscer il suo presente, ad ogni passo del Sole e cangiar dell’ombra42.
Voglio sognar il suo futuro con me, istante per istante ».

(Sipario)

Atto Terzo (in sei scene)
 
Scena Prima

Nave di Enea. Lungocosta cumano. Di notte.

(Palinuro è già in scena, al timone della nave. Entra Enea, che scruta la costa e si avvicina a Palinuro)

Enea: «Siam giunti dappresso alle coste cumane, io credo, mio fido nocchiere».

Palinuro: «Il mare è propizio. Perché non riposate, mio Signore? Veglierò io sulla rotta che c’assegna il Fato».

Enea: «E sia, allora.

(In disparte, fra sé)

Or dunque, Numi, io da voi attendo un segno!
Dove posar la mia ancora, io vi chiedo.
La mia amata sposa ho perduto43.
Così pure l’ottimo padre44.
E nobile Signora ho lasciato45.
Per trarre i miei compagni fin su questi lidi.
Or dunque dove posar l ’ancora io vi domando, potenti Numi dell’Olimpo…».

(Enea s’addormenta. Poco dopo il suo riposo si fa tormentato ed egli si volta verso il fondo della scena. Questa si fa buia. Al tornar delle luci, pur basse, Palinuro è uscito; Enea vaga ansioso per la scena, come a cercar qualcuno; Un manichino è ora presente nell’esatta posizione in cui egli poco prima dormiva; Creùsa è già in scena, distesa a terra, in disparte, con la veste macchiata di sangue. Entra infine Carneade)

Carneade: «La notte porta il sonno.
Questo è fabbrica di sogni.
E talvolta fucina d’incubi…

(Con eloquente gesto, lascia intendere che in uno di questi, è ora trascinato Enea)

La potente Troia è in fiamme.
Enea cerca l’amata sposa perduta, Creùsa.
Ma ella giace estinta…

(Enea scorge finalmente Creùsa, le si avvicina e piange sul suo corpo esanime)

Ed ora qual Ombra gli parla …».

(Entra Virgilio. Al cenno del Vate, Creùsa si alza e si rivolge ad Enea. Le abbondanti macchie di sangue sulla veste, lasciano intendere che ella sia morta)

Creùsa46:
«O mio dolce consorte,
a che s í folle affanno? A gli dèi piace
che cosí segua. A te quinci non lece
di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi;
ché soffrir lunghi esigli, arar gran mari
ti converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,
che fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno
Tebro con placid'onde opimi campi
di bellicosa gente impingua e riga.
Ivi riposo e regno e regia moglie
ti si prepara. Or de la tua diletta
Creúsa, signor mio, piú non ti doglia:
ché i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni
non vedranno gi à me, dardania prole,
e di Prïamo figlia, e nuora a Venere,
né donna lor, né di lor donne ancella:
ché la gran genitrice degli dèi
appo sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro comune amore, ama in mia vece;
e lui conserva, e te consola. Addio ».

(Creùsa esce. Entra Didone, angosciata)

Carneade: «Una sposa perduta, una nobile Signora lasciata»: così poco addietro, tu dicesti, Enea, oppur m’ingannno?
Dunque non son finiti i tuoi incubi…».

(Carneade esce. Virgilio indica Didone)

Didone47:
«Ah perfido! Celar dunque sperasti
una tal tradigione, e di nascosto
partir de la mia terra? E del mio amore,
de la tua data f é, di quella morte
che ne far à la sfortunata Dido,
punto non ti sovviene, e non ti cale?
Forse che non t'arrischi in mezzo al verno
tra' piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele! Or che faresti, se straniere
non ti fosser le terre, ignoti i lochi
che tu procuri? E che faresti, quando
fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti
di questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh! per queste mie lagrime, per quello
che tu della tua f é pegno mi desti
(poiché a Dido infelice altro non resta
che a s é tolto non aggia), per lo nostro
marital nodo, per l'imprese nozze,
per quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti unqua da me; ti priego ch'abbi
pietà del dolor mio, de la ruina
che di ci ò m'avverrebbe; e (se piú luogo
han le preci con te) che tu del tutto
lasci questo pensiero. Io per te sono
in odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite sol mi resta di chiamarti,
di marito che m'eri. E perch é deggio,
lassa, viver io pi ú? Per veder forse
che 'l mio fratel Pigmal ïon distrugga
queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in servitú m'adduca? Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe abbandonata,
né delusa del tutto».

(Didone esce, sconvolta. Anche Virgilio esce)

Carneade: «Eppur la notte è ancor restia a lasciarti, Enea.
Or stai scorrendo i lidi cumani.
E questi t’ispirano una sol cosa: il mefitico Averno48.
Ed esso conduce la tua mente agli Inferi49.
E solo la Sibilla di questi luoghi50, può farti da guida laggiù…».

(Entra Deifobe)

Deifobe: «Seguimi, or dunque, Enea di Troia, se è questo quello che tu cerchi…
Perché io so chi tu cerchi…

(La Sibilla conduce Enea sulla scena. Ad un tratto le luci di questa, da neutre, si fanno grigie, pur rimanendo di pari, bassa, intensità. Esse indicano l’ingresso nell’Antinferno, sorta di Purgatorio pagano)

Questo è l’Antinferno, Enea d’Anchise e Venere.
Qui ti è concesso visitare le Ombre dei morti anzi tempo.
O per destino della propria natura, morti anzi tempo, ancor lattanti.
O per mano d’altri, morti anzi tempo; giustiziati per falsa accusa, o periti in guerra.
O per mano propria, morti anzi tempo, suicidi.
Hai qualcuno da visitare qui?».

Enea: «Mostrami dove sospirano le Ombre dei suicidi, oh Sibilla».

Deifobe: «Allora segui il mio passo, Enea».

(Entrano alcune Ombre. Ciascuna d’esse, una per volta, si trafigge con un pugnale, all’infinito. Una di queste, girata di spalle, sia rispetto ad Enea che rispetto al pubblico, ha elegante fisionomia femminile e lunghi capelli biondi. Enea le si avvicina e le sfiora i capelli. L’Ombra si volta verso di lui, mostrando aspetto anonimo. Tutte le Ombre cominciano a girare intorno ad Enea, che le guarda cupo)

Enea: «Possiamo andare oltre, gran Sacerdotessa».

Deifobe: «Non hai che da seguirmi, Enea di Troia.

(Le Ombre escono. Le luci di scena si fanno rosse. Esse indicano l’approssimarsi al Tartaro, sorta di Inferno pagano)

Questo il Tartaro. Qui scontano il pesante fio delle loro colpe, innumerevoli uomini, per innumerevoli delitti ed ogni sorta d ’essi.
Qui vi sono quelli che tradirono la Patria, coloro che odiarono i fratelli, quelli che fecero leggi per denaro, coloro che …».

Enea: «Portami da quelli che fecero leggi per denaro».

Deifobe: «Eccoli: son questi…».

(Entrano alcune Ombre. Tutte hanno teste coronate. Tutte portano sulle proprie spalle, un pesante fardello di monete d’oro, che le obbliga a piegarsi in avanti, facendone figure gobbe. Una di queste, girata di spalle, sia rispetto ad Enea che rispetto al pubblico, ha fisionomia femminile e lunghi capelli biondi. Enea le si avvicina e le sfiora i capelli. L’Ombra si volta verso di lui, mostrando aspetto anonimo. Tutte le Ombre cominciano a girare intorno ad Enea, che le guarda sprezzante. Due di esse si scontrano accidentalmente, ed alcune monete d’oro dei rispettivi fardelli cadono in terra, tintinnando. Enea le raccoglie, le osserva brevemente, e le distribuisce tra i più vicini fardelli)

Enea: «Ho finito con loro, Sibilla di Cuma».

Deifobe: «Allora continua a seguirmi, Enea.

(Le Ombre escono. Le luci di scena si fanno celesti, e molto più intense. Esse indicano l’ingresso nei Campi Elisi, sorta di Paradiso pagano)

Ora sei giunto nei Campi Elisi, dove le Ombre dei Giusti dimorano serene…

(Entrano alcune Ombre. Tutte vestono di bianco. Enea le osserva rapidamente. Nessuna di esse presenta le sembianze di Didone, ovvero elegante fisionomia femminile e lunghi capelli biondi. Enea appare perplesso. Le Ombre escono)

« Non hai dunque trovato chi cercavi, Eroe di Troia?
Forse perché l’Ombra che tu cerchi, vaga ancora sulla faccia della terra e non sotto di essa.
E forse non sai neppur dov’essa è destinata.
Se essa dovrà passare per l’Antinferno, o se il Tartaro ne sarà la degna sede, o piuttosto i Campi Elisi la meritata dimora».

Enea: «Sei nel giusto, Sacerdotessa d’Apollo.
Tu hai gran conoscenza di tutte le cose.
Ed io non ho trovato chi cercavo.
Né più ne intuisco il destino, o ne posso presagire la fatal sede.
Ma or conducimi dal mio pio padre, ch é qui nell’Eliso ha fissa dimora ed egli mi farà conoscere il mio Fato».

(La Sibilla indica qualcuno fuori scena. Entra l’Ombra di Anchise, vestita di bianco. Entra anche Virgilio. Al cenno del Vate, Anchise si rivolge al figlio Enea)

Anchise51:
«Or qui ti mostrerò,
quanta sar à ne' secoli futuri
la gloria nostra; quanti e quai nepoti
de la dardania prole a nascer hanno;
e quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno in Italia. Indi a te conte
le tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi colà quel giovinetto ardito
che su quell'asta pura il braccio appoggia? ».

(Improvvisamente le luci di scena tornano neutre. Deifobe e Anchise si fanno amorfi ed escono. Anche Virgilio esce, ma con atteggiamento normale, giacché egli non fa parte del sogno di Enea. L’Eroe si sostituisce al proprio manichino rimasto in disparte sulla scena, e subito dopo si risveglia all’improvviso, distintamente angustiato. Entra Carneade)

Carneade: «Il tuo viaggio è terminato, Enea.
L’alba del nuovo giorno ti consegnerà la verde foce del Tevere52.
Or il tuo ardimento troverà gran causa degna d’esso.
Questo il tuo miglior terreno.
Con l’aiuto del Fato o contro di esso, gran Guerriero ed Eroe, tu permani, Enea di Troia.
Or epiche battaglie t’attendono.
Dopo discreta ritirata.
E clamor d’armi t’accompagnerà.
Dopo mortale silenzio.
Ma non scordar Enea, che facile stratagemma son le armi e le battaglie.
Per risolver dissidi col dissolver del dissidente.
Ma alla pace dovrai pur giungere.
E sarai Re, per mezzo d’essa.
E porrai leggi e precetti.
Or non facili stratagemmi son questi.
E i dissidi avran da comporsi senza dissolver il dissidente.
Ché Re di Uomini, sarai.
Dissidenti e consenzienti.
Giusti ed iniqui.
E l’umanità dovrai conoscer e umanità posseder.
E metter essa innanzi alle armi, dovrai.
Ma forse vaneggio.
Sì: che dico?
Tu segui il Fato, ed io non ne conosco i disegni.
Perciò a chi giovano le mie favelle? Se a Giove esse non aggradano?
Eppur il Tartaro è già affollato di Re e Regine, e presto verran anche teste non coronate.
Or dunque mi ritiro a seguir gli eventi …».

(Carneade esce da una parte. Enea, rimasto pensieroso in disparte, esce dall’altra)

Scena Seconda
Cartagine. Reggia di Didone.

(Entra Carneade)

Carneade: «Or l’inverno volge al termine.
Il tempo è trascorso rapido, e lento continua a scorrere.
Esso lenisce, ma non cura per sé stesso.
La tempesta è passata, ma il mar non s’è ancor acquetato.
E la rassegnazione nei confronti di un evento, è cosa diversa dalla comprensione dello stesso.
Eppur la costruzione di Cartagine è ripresa.
Mirabile, così come la riconobbero gli esuli da Troia, sbandati sulle coste d’Africa.
Perché la Fama disonesta, se veloce s’alza, allor sì rapida s’abbassa.
La Regina tiene di nuovo in pugno la sua corte.
Ed i superbi pretendenti delle città e terre vicine si fan prudenti, perché Cartagine cresce ed espande i propri commerci, mentre le lor modeste città e i vieppiù modesti accampamenti, son fermi.
L’inverno volge al termine.
Ma Didone non parla ancor con nessuno.
E quel che più detesta è che gli altri non se ne avvedano.
Né la sorella Anna, né i tanti cortigiani.
Favellare non è la medesima cosa che parlare, infatti.
Eccoli…
Ascoltiamoli dunque…

(Sulla scena scorrono Didone, Anna, Licorida, e cortigiani vari. Tutti ciarlano muti)

Eppur qualcosa han favellato…
Ma cosa?
Didone non parla con nessuno.
Giacché favellare non è la medesima cosa che parlare.
Il primo, il favellare, è per coloro che non possono capirla.
Ma dov’è Cadmo?

(Entra Cadmo. Didone lo guarda e lui si volta. Cadmo guarda la Regina, e lei si volta)

Il secondo, il parlare, è esercizio vano se rivolto a colui che non può non capirla: l’adorato Cadmo, fraterno amico suo.
Il Capitano si tiene in disparte.
Egli non ama la corte, e la corte non ama lui.
Didone lo insegue con amor fraterno, ma egli non cede al suo nuovo ruolo e rimane il Capitano delle Guardie reali di Cartagine.
Anna intanto freme per assicurar nuovo sposo alla sorella, ché ancora ignara rimane della sua sventura, ed il dubbio non la sfiora.

(Entra Iarba, e accompagnato da Anna, si avvicina a Didone; ma questa si volta)

Or prende le parti di Re Iarba, invitandolo a corte.
Ma la Regina non lo riceve ».

(Escono tutti men che Didone. Entra Licorida)

Licorida: «Mia Regina, perdonate la mia visita».

Didone: «Cosa dici, nobile Licorida? La tua visita mi è ben gradita.
Ma il tuo animo m’appare turbato, non è così?».

Licorida: «Sì, è così.
E’ ormai da molto infatti che il nobile Cadmo si rifiuta di vedermi, ed io ne soffro grandemente ».

Didone: «Che cosa è avvenuto?
Parla a tuo giudizio, Licorida».

Licorida: «Egli è invaghito di altra donna.
Ne è ben padrone, certo.
Se non fosse che tal Signora è già in sposa a gran Nobile di Cartagine, mia Regina».

Didone: «Dunque, che prove porti a riguardo?
Ché le tue sono accuse gravi per il Capitano delle mie Guardie ».

Licorida: «Io non possiedo prove; e se le avessi, per l’amor che gli serbo, non le invocherei contro di lui ».

Didone: «Chiedi a me quindi di intervenire? ».

Licorida: «Se posso osar chiederlo, sì.
Se il vostro intervento non servirà a riportarlo da me, eviterà certo che il disonore e lo scandalo si abbattano sulla vostra Corona, perché tutti sanno a Cartagine che egli è il vostro protetto.
Che quando di lui si parla aspro, voi vi voltate per non ascoltare.
Che quando di lui si parla dolce, voi vi voltate per ascoltare meglio.
Che quando lui entra in scena, i vostri occhi son solerti nel raggiungerlo.
Che quando lui esce dalla scena, i vostri occhi indugiano nel lasciarlo.
E restia vi mostrate ora, quanto bendisposta un tempo, a presentarlo a me o ad altre nobildonne di Cartagine.
Or vi lascio, Regina.
A voi grata per ci ò che farete».

(Licorida esce)

Didone: «Licorida, purifica le tue labbra prima di parlar di Cadmo.
Le tue parole non serbano amore né per lui, né per me.
Ma esse son a me preziose.
Giacché le tue parole son lo specchio dell’anima mia.
E’ così evidente l’amor che porto a mio fratello?
E tanto scandalo questo comporta?
Eppur non gli son grata per la vita mia, ma piuttosto lo biasimo per averla salvata.
E l’unico debito che ho contratto con lui, è per quel pallido sole che egli ha portato a mitigare il mio perenne inverno.
O parlo così perché son meschina?
Perché ho timore che accada ciò che fingo di desiderare?
O perché ho inconfessabile speranza di accettare ciò che fingo di rifuggire?
Ma io non t’ho promesso nulla, splendida Licorida.
Giacché nulla ti manca per tentar l’impresa.
E a Cadmo devi rivolgere le tue preghiere.
E se credi che egli non sia per me un fratello, allora credilo pure.
Chi sono io per smentirti? ».

(Entra Carneade)

Carneade: «E’ tornata forte, Didone.
Non scuote le sue fondamenta, il sospirar sibilante della calunnia.
Governa con saggezza, Didone.
Ed il popolo di Cartagine la ama ancora.
Vorrebbe far domande al suo cuore, Didone.
Sulla timida luce che lo accarezza.
Ma s’arresta.
S’arresta, al pensier del suo dolce sposo».

(Escono)

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